mercoledì 29 gennaio 2014

Bastardellum

Nel dibattito sul sistema elettorale attualmente in corso, segnalo l'articolo di Giovanni Sartori comparso domenica sul Corriere della Sera, e il nuovo, ennesimo, neologismo in -ellum che contiene fin dal titolo "Io lo chiamerei Bastardellum". Ho già evocato rapidamente la questione degli -ellum con base negativa, e credo che qui Sartori si riferisca principalmente al carattere ibrido e compromissorio dell'Italicum, la proposta di nuova legge elettorale prodotta dall'accordo tra Renzi e Berlusconi. Quello che mi interessa, però, qui è soprattutto la diacronia del suffisso e dei suoi derivati. Nell'articolo, infatti, Sartori si attribuisce la paternità sia di mattarellum che di porcellum, ossia i nomi, ormai consacrati della legge elettorale attualmente in vigore e della precedente. Come ho già notato in altre occasioni, mattarellum (come tutti gli -ellum successivi) deriva dallo pseudo-accusativo latino presente nella frase "habemus Mattarellum" con cui lo stesso Sartori annunciava, sempre sul Corriere della Sera, il 19 giugno 1993 l'allora nuova legge elettorale. Lo schema in -(ell)um ha avuto rapidamente abbastanza successo, tanto è vero che già la legge elettorale per le elezioni regionali del 23 febbraio 1995 venne chiamata, sempre dal nome del suo promotore, il tatarellum. E tra il mattarellum e il porcellum ci sono stati diversi -ellum, alcuni dei quali ho riportato nei miei precedenti post. La legge elettorale attualmente ancora in vigore, al momento della sua approvazione, ha ricevuto anch'essa un nome costruito su quello del suo promotore. La prima attestazione di calderolum si trova infatti sul Corriere della Sera del 10 settembre 2005, ma il nome decisamente di maggior successo è, ovviamente, porcellum. Che a quanto pare, però, non è stato creato da Sartori, bensì dallo stesso ministro Calderoli e dai suoi collaboratori, almeno stando a quello che lui stesso affermava in un'intervista alla Stampa del 18 marzo 2006 (che è anche la prima attestazione giornalistica della parola): “[c]he la riforma elettorale sia una porcata? Certamente. Lo si sapeva fin dall'inizio. […] Nelle riunioni preparatorie io la chiamavo affettuosamente Porcellum”. 

lunedì 20 gennaio 2014

pregiudicatellum

Il suffisso -ellum (ne ho parlato anche qui e qui) continua, senza sorprese, ad essere uno dei più prolifici nel linguaggio politico. Agli amanti di neologismi, ad esempio, non sarà sfuggito il titolo di testa della versione on line del Corriere di oggi pomeriggio, in cui si diceva che Grillo ha criticato l'italicum, proposto da Renzi sulla base dell'accordo con Berlusconi, definendolo un pregiudicatellum. Ma negli ultimi giorni sono comparsi o hanno avuto un'esplosione anche altri -ellum, come, ovviamente, il renzellum, ma anche, visto che per un periodo c'è chi ha caldeggiato il modello spagnolo, lo spagnolum. Tra i neologismi citati, italicum è quello che mi lascia più perplesso. Già la scelta della base è bizzarra: perché proporre un nome che fa riferimento, genericamente, all'Italia? Perché no, certo, ma il principio di questi neologismi, e della maggior parte delle parole derivate in genere, è di presentare il maggior grado possibile di distintività (da cui, per esempio, la scelta del nome del politico che le ha proposte). A meno che il nome non sia stato scelto ad arte dallo staff di Renzi, o di qualche altro partito per dare alla nuova legge elettorale "una certa aria di nobiltà", come suggerisce ad esempio il Fatto Quotidiano. Fatto sta che italicum è, secondo i principi che presiedono alla formazione di nomi di leggi in -ellum, piuttosto deviante, e appare accettabile soprattutto in virtù del fatto che si tratta di una parola già esistente in latino. Pregiudicatellum è decisamente migliore, se non fosse per il fatto che supera di ben due sillabe il formato preferito per gli -ellum. Questa osservazione mi ha fatto scoprire che l'altro ieri, due giorni prima di Grillo, qualcuno aveva già lanciato su Twitter l'hashtag pregiudicatum, migliore dal punto di vista sillabico, ma che ha il difetto di non contenere la sequenza -ell-

martedì 11 giugno 2013

datagate


Lo scandalo che sta travolgendo in questi giorni l'amministrazione Obama, in seguito alle rivelazioni del Guardian, è stato ribattezzato datagate. Il blog Terminologia etc. fa notare come la parola in questione, anche se costruita con elementi originariamente inglesi, è a tutti gli effetti una creazione italiana. Se, infatti, cerchiamo datagate su Google la quasi totalità delle prime pagine che otteniamo sono pagine di giornali italiani, e, ancora più sorprendente, quando si cerca la parola "datagate" sul sito del Guardian non si ottiene alcuna risposta. Leggermente più usata sembra essere, in inglese, la forma Prismgate, ma anche in questo caso non la si trova usata in nessun grande mezzo di comunicazione anglofono. Compare, invece, in qualche tweet anglofono o comunque in usi individuali. PRISM è il nome con cui lo scandalo è noto negli Usa e negli altri paesi anglofoni, e corrisponde al nome in codice attribuito dal governo statunitense al programma di spionaggio che è all'origine dello scandalo. Nelle attestazioni che ho trovato in inglese, sia di datagate che di prismgate, la sequenza finale sembra riferirsi al significato letterale di 'portale', 'cancello', ad esempio in nomi commerciali.
Il blog Terminologia etc. si chiede quale sia l'origine dell'italiano datagate. La rivelazione dello scandalo da parte dei giornali americani e britannici risale al 6 giugno scorso. Già l'indomani datagate compariva nei titoli di diversi quotidiani italiani (ad esempio la Repubblica). Ovviamente, è difficile stabilire con esattezza chi l'abbia usata per primo, ma, in particolare grazie a Twitter, possiamo cercare di abbozzare una mini-diacronia della parola. Compare, ad esempio, in un lancio dell'Ansa del 7 giugno (alle 10,02), anche se la primissima ad averla usata sembra essere la Stampa, ad esempio in questo tweet del giornalista Marco Bardazzi che si chiede quale, tra data-gate, web-gate e prism-gate, sia la denominazione più appropriata per lo scandalo (facendo riferimento anche al suffissoide -leaks). Sta di fatto che oggi, cinque giorni dopo, quando si cerca datagate (solo in italiano) su Google si trovano già più di un milione di pagine.
Quanto alla forma di questa parola, non è certamente la prima ad essere costruita interamente in italiano con materiale inglese. Nel sito di neologismi della Treccani, ad esempio, si trovano forme come baby-boss o baby-bomber che sono certamente italiane (bomber, poi, in inglese non ha neanche il significato calcistico di 'cannoniere'). E' interessante, però, che con -gate, che pure è disponibile con parole italiane, si sia scelto di usare la base inglese data. Da una parte, certamente, c'è il fatto che la parola si riferisce a un fenomeno statunitense (e anch'io, se non fosse stato per il blog citato, avrei giurato che fosse stata coniata in ambito anglofono), dall'altra che -gate, in quanto elemento non autonomo di origine inglese, mantiene quest'ultimo tratto, almeno come sfumatura, e preferisce legarsi, se possibile, a parole inglesi, così come i prefissoidi o suffissoidi greci o latini prediligono, quando esistono, le varianti colte delle parole a cui si legano (come in germanofilo o anglofono, per intenderci).

sabato 8 giugno 2013

Professorin e rettrice


Finora mi sono sempre occupato di neologismi. Oggi mi occupo piuttosto del cambiamento di significato di parole che esistono già, o più precisamente di slittamento di genere. Casualmente, nello stesso giorno, infatti, una collega dell'Università dell'Aquila ha comunicato su Facebook che nella sua università alla carica di rettore era stata nominata una donna, e io ho scoperto, da questo articolo di Repubblica, che all'Università di Lipsia, dove il rettore era già una donna, si è cercata di imporre la forma suffissata femminile per tutti i ruoli accademici, e quindi Professorin, Assistentin, Rektorin, etc. (almeno stando agli esempi riportati da Repubblica). D'altra parte, in Germania sono abituati da diversi anni ad avere una Kanzlerin. Purtroppo, il mio tedesco non mi permette di capire bene cosa ne dicono i giornali tedeschi, e soprattutto se Professorin, quando è riferito a un professore mantenga il genere femminile o possa essere usato al maschile. 
Le questioni linguistiche legate al genere sono spinose, e ritornano spesso nelle discussioni sull'uso, soprattutto burocratico della lingua. Basti pensare ai vari dibattiti intorno alle ministre, sindache, magistrate che appaiono regolarmente sulla stampa. Almeno in Italia, mi sembra che la preferenza vada alle forme che possono essere trasformate al femminile semplicemente con l'aggiunta di una -a (perciò sindaca o avvocata e non sindachessa e avvocatessa), a meno che non siano già da tempo nell'uso, come dottoressa o professoressa. Questo almeno è quello che raccomandano le Linee guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo, edite a cura dell'Accademia della Crusca. Il manualetto in questione propone anche di sostituire con -a la -e finale dei nomi in -sore (quindi, assessora, difensora), e di usare -trice per quelli in -tore. Quella dell'Aquila sarebbe quindi una rettrice. La cosa strana è che in Italia sembra prevalere l'idea che l'aggiunta di un suffisso (come -essa) rende la parola più marcata, e quindi meno preferibile rispetto al semplice cambio di genere e classe (da -o/-e a -a). In Germania, invece, si propone di estendere la forma marcata da un suffisso anche al maschile (come se noi dicessimo il professoresso o il rettricio). Apparentemente, il suffisso -in in tedesco è sentito come abbastanza neutro, e non ha, a differenza di quello che immaginavo, nessun senso diminutivo o vezzeggiativo. Deriva infatti da un suffisso antico germanico -innja che non ha niente a che vedere con il diminutivo latino. La confluenza tra femminile e diminutivo è comune in molte lingue, soprattutto romanze, un po' per ragioni strutturali, ad esempio la somiglianza tra il diminutivo latino e il suffisso greco -ῑνη (quello di eroina, ad esempio), e probabilmente anche per ragioni ideologiche (si pensi, in italiano, alle suffragette, alle crocerossine o, più recentemente, alle olgettine). 

lunedì 3 giugno 2013

svapare, vape, vapoter


Sabato su Le Figaro c'era, complice anche il dibattito francese sul divieto di usare le sigarette elettroniche nei locali pubblici, un articoletto sul nuovo verbo francese vapoter, che significa, appunto, fumare una sigaretta elettronica che, come è noto, emette vapore anziché fumo (l'articoletto è ripreso nel blog dell'autore, Etienne de Montety). Lo stesso testo contiene anche i derivati vapoteur (fumatore di sigarette elettroniche) e vapotage (l'atto di vapoter): 
Sitôt son vapotage terminé, le vapoteur va ranger son e-clope dans sa poche, sans avoir besoin d'e-cendrier.
[Appena finito il suo vapotage, il vapoteur sistema la sua e-sigaretta in tasca, senza aver bisogno di e-posacenere; clope è la versione in argot di sigaretta]
In italiano lo stesso concetto si dice svapare e l'atto relativo è lo svapo (così come il fumo è l'atto del fumare), anche se, da quello che intuisco, molti svapatori preferiscono dire semplicemente che fumano una sigaretta elettronica.
Le sigarette elettroniche provengono dalla Cina (dove, per la cronaca, vengono chiamate ruyan 'sembra fumo'), e sono arrivate nel resto del mondo nel 2007. Immagino, perciò, che, in maniera poco sorprendente, il prototipo di tutti questi verbi è to vape. Secondo questo sito la prima attestazione in inglese risalirebbe al dicembre 2007, mentre per l'italiano svapare le prime attestazioni che ho trovato sono del 2009 (ad esempio qui).
Naturalmente, in tutte le lingue citate, la parola base è vapore, ossia la sostanza che esce dalle e-sigarette, e la cosa curiosa è che in tutti i casi la parola è ridotta, in particolare con l'eliminazione del suffisso -ore e dei suoi corrispondenti. Immagino che ci possano essere varie spiegazioni per questo, ad esempio il fatto che il suffisso può essere percepito come la marca di una parola derivata (per rimanere all'inglese, il vapor sarebbe quindi il risultato del vaping), ma anche il fatto che vaping e smoking hanno la stessa lunghezza in termini di sillabe. Bisogna poi notare che sia in italiano che in francese il nuovo verbo ricalcato dall'inglese presenta qualche particolarità bizzarra. In italiano in prefisso s- (immagino in senso intensivo, quello di sbandierare per intenderci), che riesco difficilmente a spiegarmi; in francese, si sarebbe potuto vaper, che sarebbe assomigliato a fumer. Anche qui non so benissimo perché i francesi abbiano scelto invece un'altra forma, se non, da una parte, il fatto che aggiungere una t è una strategia corrente per creare dei verbi (ad esempio 'mandare un SMS', che in francese è texto, si dice textoter), e dall'altra che, come ricorda l'autore dell'articoletto che citavo all'inizio, crapoter, in argot, significa fumare senza respirare il fumo.

domenica 26 maggio 2013

Porcellinum


Negli ultimi giorni si è parlato molto del Porcellinum, ossia la versione modificata del Porcellum che il Governo si appresta a far discutere in Parlamento. Solo nell'ultima settimana Google News registra 658 attestazioni della parola. Del Porcellum, e dei suoi simili, avevo già parlato qualche settimana fa. Naturalmente, per ora, più del contenuto della legge, ancora oscuro, mi interessa la parola che la designa. Visto il significato (una versione edulcorata della legge elettorale in questione), Porcellinum è chiaramente un diminutivo di Porcellum. Che io sappia, però, è un rarissimo caso, in italiano, di diminutivo in cui il suffisso non è attaccato alla fine della radice, ma in mezzo. Se guardiamo le altre parole latine (o pseudo-tali, come Porcellum), che finiscono in -um o anche in -us, infatti, le strategie per creare dei diminutivi (ma anche degli accrescitivi o qualsiasi altro tipo di derivati) sono due: attaccare il suffisso direttamente alla fine della parola (e infatti per me albumino o autobussino sono assolutamente normali, ma su Google ho trovato anche cactus(s)ino, rebus(s)ino, referendumino o vademecumino), oppure eliminare le sequenze - che in latino corrispondevano alle desinenze del nominativo singolare - -um e -us, 'italianizzando', per così dire, il derivato. Così, sempre su Google troviamo diversi esempi di referendino, memorandino, e anche qualche cactino… Quest'ultima strategia, poi, è quella usata di preferenza nell'italiano più normativo, in cui si dice referendario, virale o juventino. E indica che nella nostra lingua le sequenze in questione, se non corrispondono ovviamente più ad alcuna terminazione flessiva, sono comunque sentite come quasi-desinenze, o comunque hanno uno status intermedio tra una desinenza vera e propria (come -o o -a, ad esempio) e una sequenza che fa parte di una radice. Segnalo, tra l'altro, che in spagnolo hanno più o meno lo stesso problema con le parole singolari o invariabili che finiscono in -s (che normalmente è la desinenza del plurale). In questo caso la soluzione prescelta è identica a quella che ha dato vita a Porcellinum, si inserisce il suffisso diminutivo all'interno della radice, per cui si ha lejitos dall'avverbio lejos ('lontano') e Luquitas dal nome proprio Lucas
Ma ritorniamo al nostro Porcellinum. Pensandoci, quella prescelta è in realtà l'unica opzione per dare un diminutivo accettabile a Porcellum. Eliminare semplicemente la sequenza finale -um, infatti, darebbe un diminutivo identico alla parola porcellino già esistente in italiano, mentre porcellumino sarebbe, da una parte, assai lunga, e dall'altra mancherebbe di quel suffisso -um che, come ho già osservato, è indispensabile per designare il nome di una legge elettorale. Il fatto, poi, che porcellino esista indipendentemente in italiano come diminutivo di porcello, ossia la base di Porcellum, non fa che motivare ulteriormente il suo diminutivo. E per finire, segnalo anche che questa strategia di formazione di diminutivi di Porcellum ha dato vita, almeno, anche a Porcellonum e a Porcellettum.

domenica 12 maggio 2013

egoseum


Da un articolo apparso nei blog dell'Espresso apprendo la nascita di un nuovo fenomeno, e di conseguenza di una nuova parola. Si tratta dell'ego-seum, in pratica un museo privato in cui un ricco collezionista d'arte espone al pubblico la sua collezione. The Guardian descrive così il fenomeno:
"I collezionisti acquistano massicciamente così tante opere contemporanee che le loro diverse case sono insufficienti per conservarle tutte. Ma piuttosto che abbandonare le loro costose eccedenze in magazzini nascosti, scelgono di condividere i loro tesori con il pubblico". In quanto ultimo status symbol per i super-ricchi, i musei privati possiedono addirittura una nuova etichetta: "ego-seums".
In italiano la parola è praticamente inesistente (le uniche citazioni che si ricavano da Google riguardano l'articolo dell'Espresso e pochi altri articoli di giornale). In inglese, invece, si trova qualche centinaio di attestazioni. Si tratta, ovviamente, di una parola-macedonia (o, visto che si tratta di inglese, di un blend) tra le parole ego e museum. Come parola-macedonia è un po' particolare, dal momento che le due parole che la compongono non sono legate in corrispondenza di una sequenza fonologica comune (come la o di smoke e fog in smog, per intenderci). E' il fenomeno per cui una sequenza, per vari motivi, viene reinterpretata come uno pseudo-affisso - in questo caso uno pseudo-suffisso - e che ha dato vita, ad esempio, alla finale -burger per vari tipi di panini a partire dal prototipo hamburger, ma anche, in tempi più remoti, alla finale -bus per un veicolo di trasporto pubblico, a partire dal prototipo omnibus (originariamente il dativo plurale di omnis 'tutto'). Che io sappia, l'inglese -seum, o l'italiano -seo, non era ancora emerso come suffissoide per indicare un museo, e quest'ultima parola mi sembra piuttosto inadatta, vista la sua brevità, ad essere segmentata. In realtà, anche museo (o il corrispettivo nelle altre lingue europee) è una parola composta, visto che in latino museum (a sua volta derivato dal greco) designava un santuario delle Muse, e conteneva il suffisso -eum. Immagino che il motivo per cui si trovano molti più esempi di ego-seum scritto con un trattino sia dovuto alla necessità di mettere in evidenza le due parole di base, e in particolare museum. A favorire l'unione ci può essere stato il fatto che sia ego che museum sono di origine classica (anche se da due lingue diverse) e come tali, probabilmente, percepiti come "colti" dai parlanti dell'inglese. Un altro fattore è certamente il fatto che ego- funziona comunque già come prefissoide; in inglese appare ad esempio in egocentric, egoistic, egomaniac, tutte parole che hanno lo stesso significato che in italiano, ma ho scoperto anche la parola egosurfing, che indica il navigare su Internet alla ricerca di informazioni su sé stessi. Come si vede in tutte queste parole, come in italiano, ego- contiene anche una sfumatura di eccessiva, se non patologica, attenzione alla propria personalità, e non è escluso che la cosa non si applichi anche ai proprietari di ego-sei, che non devono certo brillare per modestia e senso della misura.